Prefazione di Rabbia Trans+ Torino
Con immenso ritardo pubblichiamo questo articolo inviatoci via mail a rabbiatrans.to@hacari.net da “noid5275”
Ricordiamo che questo noblogs e la pagina @rabbia.trans.to sono una piattaforma da e per persone trans* che vogliono avere un mezzo per condividere articoli, poesie, piccoli testi, disegni, e quanto possibile. Moderiamo i contenuti solo nel caso di elementi abilisti, razzisti, classisti, specisti e quanto tutto discriminante ci sia.
I PANNI SPORCHI (NON) SI LAVANO IN FAMIGLIA
Si dice che “i panni sporchi si lavano in famiglia” per de-responsabilizzarsi e anche un po’ nascondere i problemi che sono questi panni sporchi. Ma è veramente così che vogliamo che sia il movimento queer – neurodivergente – disabile?
Un’analisi critica alla difficoltà del movimento neuroqueer a riconoscersi come parte del sistema patriarcale, carcerario e quindi violento.
Vocabolario, warnings e disclaimer
In questo articolo farò menzione (senza descrivere nel dettaglio) di violenza verbale, fisica, sessuale, razzismo, uso di sostanze, psichiatria, suicidio.
Premessa non con la volontà di stabilire come definizioni definitive certe e invariabili, ma per chiarire con cosa intendo in questo articolo quando uso delle parole e cercare di evitare dei fraintendimenti.
Sono una persona trans che ha militato per tanti anni a Torino e non solo, sono anche una persona bianca quindi per le testimonianze riguardo al sistema carcerario prenderò le parole di compagn* razzializzat*.
Spero questo articolo venga letto, dissezionato e criticato perchè ci sono temi che devono iniziare ad essere portati in assemblea se non vogliamo che la destra e il Sistema ci sopprima con le nostre stesse mani.
L’articolo contiene errori grammaticali, di sintassi, la qualunque.
Se viene usato il femminile è riferito alla parola “persona”, cercherò per quanto possibile di usare un linguaggio neutro con l’asterisco.
- SISTEMA: tutto ciò di patriarcale, machista, abilista, razzista, classista, omo-lesbo-bi-trans-a-fobico, colonialista, ageista, specista e capitalista, la mentalità carceraria che crede nella punizione mettendo dietro le sbarre dei soggetti, chi traccia confini e stabilisce chi ha diritto a vivere dove, ciò che normalizza e accetta la violenza.
- COLLETTIVITA’: non solo il “collettivo” cioè l’assemblea che si chiama X, non il giro stretto di amicizie, non solo il nucleo familiare, non solo l’ambiente lavorativo, ma proprio tutt*, non siamo un’isola e quindi collettività significa chiunque in qualche modo volente o nolente ha un legame con la persona Y o il fatto Z. Se una violenza esiste e viene commessa è perchè la collettività, tutto ciò che circonda la/le persona/e, ha creato un clima che permette di agirla.
Il sistema come un virus
Immaginiamo il “Sistema” come un virus: un virus per sopravvivere e replicarsi deve adattarsi ai cambiamenti, agli antibiotici e precauzioni che possiamo prendere, un virus estremamente specifico che, ad esempio, attacca solo le persone con i capelli castani e gli occhi verdi avrà una vita difficile e non riuscirà a diffondersi ovunque.
Eppure il virus Sistema è ovunque: in società occidentali e non, persone bianche e Peoples of Color, giovani e anziani, cisgender e trans, etero e queer, abili e disabili, neurotipici e neurodivergenti. Nella storia dei movimenti contro il Sistema si è provato a combatterlo tuttabia quando si riesce a trovare un “antibiotico” questo virus cambia e si adatta per diventare sempre più resistente; un esempio: le prime donne lesbiche e masc che usavano la loro stessa esistenza come gesto di ribellione e trasgressione agli standard di genere, i bar separatisti per sole lesbiche, adesso 2025 non è impossibile vedere persone lesbiche masc che agiscono però gli stessi comportamenti patriarcali e machisti degli uomini cis, questo perchè il Sistema si è fatto furbo adattandosi e trovando modo di agire e replicarsi sempre e ovunque.
Se smettiamo di fare ricerca e trovare nuovi medicinali per combatterlo non verrà mai debellato, e il campione non può essere esclusivamente la popolazione cishet bianca.
C’è l’errato presupposto che i sintomi del Sistema siano sempre uguali su ognun* di noi, sarebbe troppo bello e troppo facile da riconoscere così, ma la sua particolarità sta nel sapersi nascondere, adattare e quindi riprodurre. Un uomo cishet bianco agisce i suoi sintomi fischiando alla donna per strada e condividendo materiale sessuale privato senza consenso, però i sintomi sono gli stessi per la donna trans neurodivergente? Oppure si passa dall’assunto (errato) che lei è sana, immune, e quindi non commette violenza?
Forse le uniche persone immuni dal poter replicare il virus sono i neonati incapaci di intendere e di volere, tuttavia loro nascono da famiglie e in una rete già infette; pensiamo ai “maschietti” che tra di loro si bullizzano se piangono, le “femminucce” che non usano la violenza fisica ma fanno bullismo a chi per loro è “divers*”; cioè inconsciamente già sanno chi nel Sistema non corrisponde allo standard, infatti quasi tutt* l* bambin* che alle scuole elementari e medie hanno vissuto episodi di bullismo ed esclusione sono neurodivergenti [1-2].
Tutta questa premessa per cercare di far capire l’ottica di questo articolo: nessun* in grado di intendere e di volere è immune al Sistema, non esiste il vaccino finale, perchè questo troverà sempre il modo di adattarsi a come noi cerchiamo di difenderci e curarci.
Vivere accanto al carcere – sistema punitivo
Questo capitolo si basa molto sul libro “Aboliamo le Prigioni” di Angela Davis (versione tradotta in italiano da Giuliana Lupi) [3].
Questo passo laterale sulle carceri nasce dalla necessità di analizzare come vediamo la violenza e come viene percepita come “più adeguata” la risposta a questa: in sintesi (spoiler) con punizione, esclusione, emarginazione, privazione della privacy e della libertà.
Se vogliamo però essere cambiamento, guarire dal virus del Sistema, bisogna anche fermarci e chiederci se è così che vogliamo che funzioni.
Parto da un pezzo agli inizi del libro di Davis:
“E’ questa la funzione ideologica del carcere: ci solleva dalla responsabilità di affrontare seriamente i problemi della nostra società, in particolare quelli prodotti dal razzismo e, in misura crescente, dal capitalismo globale.”
Il libro si concentra sul razzismo soprattutto negli USA, però voglio credere nell’intersezionalità del discorso e traslare anche alla comunità queer (in più sono una persona bianca quindi non è il mio spazio parlare di razzismo).
Arthur Waskow in Institute for Policy Studies scrive:
“[…]L’unica vera alternativa è costruire quel tipo di società che non ha bisogno di prigioni […] E un senso decente della comunità che possa sostenere, reinserire e riabilitare davvero quelli che sono presi improvvisamente dall’ira o dalla disperazione, che li tratti non come oggetti – “criminali” – ma come persone che hanno commesso atti illegali, come la maggior parte di noi tutti.”
La parte che più risuona dentro di me è quel “commesso atti illegali come la maggior parte di noi tutti”: spesso non facciamo caso o ignoriamo che non siamo innocenti, prima o poi una violenza bisogna commetterla, perché quando la lingua principale che ti viene insegnata è quella della violenza non puoi fare altro che parlarla anche te. Abbiamo bisogno di una comunità che se ne renda conto e si insegni a vicenda una nuova lingua.
Il sistema attuale si basa sulla reclusione – esclusione – allontanamento, visto che hai sbagliato commettendo un reato non hai più diritto ad avere una rete sociale e libertà di movimento. Troppo spesso ho visto replicato questo stesso sistema nel movimento queer ACAB neurodivergente: succede una violenza, chi l’ha commessa viene isolat* e viene chiesto (implicitamente o esplicitamente) alla sua rete amicale e di supporto di allontanarsi da questa persona, agli spazi compagni e non di non farla venire, esclusione da assemblee, piazze, cortei, manifestazioni e quanto altro; alla fine chi ha commesso la violenza si trova senza più amicizie e senza nessuna rete che si prenda la responsabilità di far capire la gravità dell’azione commessa e intraprendere un percorso per analizzare come si è arrivati a commettere questa violenza.
Lo stesso stigma sociale che viene appiccicato alle famiglie di persone detenute viene replicato a chi resta in rapporti e dialogo con chi nel nostro movimento ha commesso la violenza: sei complice, sei anche te in soggetto pericoloso e quindi da evitare ed isolare.
Sarò ripetitiv* però tutto questo non mi sembra molto ACAB e contro il carcere, ma solo un subdolo modo che il Sistema ha trovato per ancora una volta continuare ad esistere ed agire. Se chi commette violenza non viene punit* tramite denunce e carcere perché noi non crediamo in questi sistemi, siamo comunque portat* a creare un altro tipo di sistema carcerario, non fatto da sbarre di ferro e sbirri ma comunque violento e con lo stesso funzionamento.
Un altro pezzo dal libro [3]:
“[…] “Che ne sarà di assassini e stupratori?” – voglio concludere con la storia di uno di questi esperimenti di riconciliazione straordinariamente riuscito. Mi riferisco al caso di Amy Biehl, la borsista Fulbright bianca di Newport Beach, in California, uccisa da alcuni giovani sudafricani a Guguletu, un sobborgo nero di Città del Capo, in Sudafrica.
Nel 1993, quando il Sudafrica era al culto me della sua transizione, Amy Biehl dedicava molto del suo tempo di studentessa straniera alla ricostruzione di quel paese. […] Il 25 agosto, Amy stava accompagnando in auto alcuni amici neri alle loro case di Guguletu quando una folla che scandiva slogan contro i bianchi la aggredì e alcuni giovani la presero a sassate e la pugnalarono a morte. Quattro degli uomini che avevano partecipato all’aggressione furono condannati a diciotto anni di reclusione per il suo omicidio. Nel 1997, Linda e Peter Biehl, i genitori di Amy, decisero di sostenere la domanda di amnistia che quegli uomini avevano presentato alla Truth and Reconciliation Commission. I quattro chiesero perdono ai Biehl e furono rilasciati nel luglio 1998. Due di loro – Easy Nofemela e Ntobeko Peni – in seguito conobbero i Biehl, che avevano acconsentito a incontrarli nonostante le molte pressioni contrarie.
Nofemela disse che voleva esprimergli il suo dispiacere per aver ucciso la figlia meglio di quanto avesse potuto fare durante le udienze della commissione. “So che avete perduto una persona cara”, ha riferito di avergli detto durante quell’incontro. “Voglio che mi perdoniate e mi prendiate come vostro figlio”.
I Biehl, che dopo la morte della figlia avevano creato la Amy Biehl Foundation [una ONG che gestisce programmi educativi e per la non-violenza in molti sobborghi neri intorno a Città del Capo], chiesero a Nofemela e Peni di lavorare nella sezione di Guguletu della fondazione. Nofemela divenne istruttore sportivo nell’ambito di un programma di doposcuola e Peni divenne amministratore. Nel giugno 2002 accompagnarono Linda Biehl a New York, dove, dinanzi all’American Family Therapy Academy, parlarono tutti di riconciliazione e giustizia riparatrice. In un’intervista al Boston Globe, quando le fun chiesto cosa provasse nei confronti degli uomini che avevano ucciso sua figlia, Linda Biehl rispose: “Gli voglio molto bene”. Dopo la morte di Peter Biehl nel 2002, Linda acquistò per loro due lotti di terra in memoria del marito, affinché Nofemela e Peni potessero costruirsi una casa. Qualche giorno dopo gli attacchi dell’11 settembre, ai Biehl era stato chiesto di parlare in una sinagoga della loro comunità. Secondo Peter Biehl: “Cercammo di spiegare che talvolta conviene tacere e ascoltare cosa hanno da dire gli altri; chiedersi: “Perché accadono queste cose orribili?”, anziché limitarsi a reagire.”
Adesso tirerò fuori una fanzine che potendo la copia-incollerei per intero perchè è proprio tutto il punto di questo enorme articolo ed obbligatoria da leggere (disponibile gratis online): “Spero sceglieremo l’amore. Cronache di una ragazza trans dalla fine del mondo.” di Kai cheng Thom e tradotto in italiano da un gruppo di persone trans, queer e lesbiche* [6].
“Nella comunità queer di Montreal, i concetti di safety e responsabilità vengono discussi in quello che sembra spesso essere un loop senza fine. Di volta in volta, affermiamo il diritto di ogni componente della comunità di vivere liber* da abusi relazionali e dalla violenza in qualsiasi sua forma e denunciamo chiunque potrebbe perpetrare tale violenza. Chi agisce violenza, proclamiamo pubblicamente, non è benvenut* alle serate, ai workshop politici, alle manifestazioni, ai servizi offerti dalla comunità. I nomi di queste persone vengono fatti circolare tramite il chiacchiericcio, in documenti online semi-privati e, a volte, tramite call-out pubblici sui social. Chi agisce violenza non è benvenut* a Queerlandia. Ma cosa ne facciamo di quelle persone che sono sopravvissute alla violenza e al tempo stesso l’hanno agita? […] A volte mi chiedo: se allontanassimo ogni singola persona queer che abbia mai commesso qualsiasi atto sessualmente inappropriato, abusante o violento, esisterebbe ancora una comunità queer?”
Se ogni persona che nella sua vita ha commesso una violenza la trattassimo come ad oggi continuiamo a fare (isolamento – cancellazione – eliminazione) resterebbe qualcun* nel movimento?
Giustizia trasformativa in tutto questo?
Se non vogliamo più sottostare alle aspettative del sistema carcerario (punizione-esclusione-isolamento) allora una alternativa bisogna trovarla perchè la violenza continuerà ad esistere e dobbiamo averne a che fare dalla parte di chi la vive, chi la commette e chi ha la responsabilità di far sì che non si ripeta (cioè la collettività).
Negli ultimi anni fortunatamente si è sempre più diffusa questa “giustizia trasformativa”, ma non è l’antidoto finale e quindi il Sistema ha trovato modo di insinuarsi e annullare alcuni dei cardini che fanno sì che questa alternativa funzioni (o almeno ci provi).
Un passo indietro: cosa significa giustizia trasformativa? Per me che scrivo questo articolo significa innanzitutto non ri-agire violenza su chi l’ha commessa tramite le pratiche che il Sistema prevede e normalizza: isolamento, esclusione, negazione della privacy condividendo le informazioni personali e private senza il consenso, privazione della libertà di movimento, dover subire a propria volta violenza da terze persone, privazione di diritti considerati inalienabili.
Per me significa prendere chi ha agito violenza e sì, fare una bella sgridata su cosa ha sbagliato, e poi seguirla tramite un percorso costante per farle notare cosa sbaglia, come dei comportamenti hanno portato a dei fatti; la piramide della violenza non si applica soltanto a chi non fa militanza di sinistra, dobbiamo vedere come piccoli gesti nel nostro passato hanno portato ad una “escalation” di violenza.
Per me giustizia trasformativa significa ascoltare chi ha vissuto la violenza e creare attorno una rete di supporto stabile e capace, che sia a sua volta consapevole di non dover ri-traumatizzare la persona e non agire altra violenza (la famosa “vendetta”).
Il cuore pulsante della giustizia trasformativa come decido di viverla e interpretarla in questo articolo è assicurarsi che nessuna violenza venga più riprodotta da nessuna parte in nessuna circostanza.
Come funziona? Non esiste ovviamente la ricetta unica, la soluzione finale, Giusi Palomba nel suo libro “La trama alternativa” scrive come ha funzionato nella sua esperienza (estratto molto molto sintetico, altrimenti bisognerebbe copiare tutto il libro):
“si lavorerà secondo un protocollo che è stato scritto in quella sede ma che si ispira ad altri, presenti in altri gruppi in città, una serie di azioni da intraprendere, una bussola per orientare i passi. I primi in teoria sono molto semplici: formare dei gruppi di supporto. E saranno almeno due: uno per Mar e uno per Bernat. Mar sceglierà le persone che dovranno starle accanto in quelli che probabilmente saranno mesi di grande stress emotivo. La scelta partirà da lei e verranno chiamate le persone a cui ha pensato. Mar indica i momenti in cui necessiterà di un supporto: si sente più insicura di notte, di giorno, al lavoro, nei suoi momenti di svago? Le persone coinvolte si sentono in grado di affrontare il processo? In che situazione personale si trovano? Hanno già altri compiti di cura nelle loro giornate, impegni che richiedono molte energie? Possono garantire una continuità? E se le loro condizioni di partenza cambieranno, saranno pronte a condividerlo nel corso del processo e chiedere di essere sostituite? Queste sono le domande che si fanno in un incontro iniziale. Il racconto di quello che è accaduto è stato già condiviso, una volta sola. Non c’è bisogno di ripetere nulla, non c’è bisogno di rivivere il trauma. Le decisioni di Mar, da questi primi istanti, sovvertono l’ordine costituito. Si rifiuta di stare zitta, di soffrire in silenzio e perpetuare l’omertà del gruppo, si rifiuta di lasciar agire indisturbato un uomo così inserito, amato, apprezzato. Ma si rifiuta anche di rivolgersi al commissariato, di usare canali comunemente considerati consoni. Tutti scenari che non sarebbero incomprensibili o indegni, se non ci fossero alternative. Ma l’alternativa esiste, e Mar la usa. Sente la necessità di concepire un criterio per ragionare sulla violenza e guarire dal proprio trauma in un modo che sia affine alla sua concezione del mondo. Una decisione che sembra più vicina al suo vivere in una comunità, e al percepirsi come parte di una rete di persone che ama. I passaggi della narrazione e del percorso d’ora in poi seguiranno il suo ritmo, il suo passo. Improvvisamente ho bisogno di accelerare l’apprendimento di questa nuova educazione politica. Mi dicono che in questi casi un gruppo di alleati accompagna gli uomini nel percorso. Un gruppo di supporto che organizzerà con Bernat incontri, discussioni, momenti di autocoscienza. Sarà formato prevalentemente da uomini – questa è la scelta di Mar – che non dovranno sottolineare differenze o considerarsi migliori, ma ragionare insieme sui motivi che lo hanno spinto ad agire violenza. Motivi di cui è possibile riconoscere tracce nell’esperienza di tutti. Un terzo gruppo di collegamento farà da ponte tra i due di supporto e comunicherà le decisioni di Mar a Bernat e i progressi di Bernat a Mar. Avrà anche il compito più importante, quello del primo approccio con Bernat: comunicare la decisione presa e chiedergli se vuole intraprendere questo percorso. L’identità di Mar all’inizio non verrà rivelata a Bernat, per decisione sua e per considerazioni condivise dalle persone intorno a lei. I primi momenti saranno molto delicati e le reazioni di Bernat imprevedibili. Non è detto che lo accetti immediatamente, non è detto che lo accetti affatto, e i rischi sarebbero molti. Tutelando la sua identità, nell’eventualità che Bernat si rifiuti, a Mar sarà garantita la calma necessaria per decidere come proseguire. Il gruppo sarà preparato a gestire le sue obiezioni, le reazioni forti al richiamo, l’incapacità iniziale o totale di capire di aver inferto un danno grave. Si giustificherà? Minimizzerà? Sarà pronto a impegnarsi? Per gestire tutto questo, nel gruppo di supporto ci saranno anche degli amici. E si cercano anche persone che abbiano già fatto parte di processi di responsabilizzazione. I componenti del gruppo di supporto di Bernat dovranno essere persone di cui Mar si fida, che hanno già lavorato a smontare certi assunti, Mar dovrà potersi sentire sicura che il lavoro sarà portato avanti con consapevolezza e autorevolezza. Anche gli uomini più reticenti – a tratti o completamente a seconda delle risorse a disposizione – finiscono per interiorizzare una cultura che li vuole infallibili, intoccabili, che assegna loro il diritto di occupare spazio quando e come vogliono, e questo si traduce nel fatto che accettare una critica, un richiamo, un’accusa, non è semplice per nessuno, i condizionamenti sociali lo rendono tortuoso. Tutto questo – Mar lo sa, la comunità lo sa – va considerato.” [4]
L’esperienza riportata arriva da un protocollo già sperimentato, non tutte le città ne hanno uno però da qualche parte bisogna iniziare, non possiamo permettere alla paura di sbagliare di immobilizzarsi su vecchie pratiche. Non agire è già sbagliare, e qualcun* si farà sempre del male dall’assenza di presa di responsabilità collettiva.
Riprendo le parole dell* compagn* che hanno tradotto il testo di Kai cheng Tom “Spero sceglieremo l’amore” [6]
“Ci siamo interrogatx e scervellatx a lungo sulle dinamiche che si creano attorno a episodi di tossicità relazionale, talvolta nominati e riconosciuti come violenza, talvolta non riconosciuti in quanto tali da tutte le parti implicate o vicine. Crediamo che, in parte, sia proprio questa differenza di prospettive a creare delle dolorose fratture fra di noi. E questo perché differenti prospettive corrispondono a diversi modi in cui si intende gestire il conflitto/la violenza, il che spesso ci porta a discutere in maniera più distruttiva che costruttiva. Crediamo anche che il dolore che si crea attorno alle situazioni di conflitto/violenza sia inevitabile, perché queste coinvolgono spesso persone vicine a noi o noi stessx […] le nostre comunità non sono scevre da dinamiche di potere, coercizione, violenza, ovvero tutto ciò a cui la società ci abitua sin da piccolx. Popolarità, bisogno di riconoscimento e legittimazione, potere, sono tutti elementi che inquinano i racconti di conflitto e violenza, che rendono difficile nominare gli stessi e riconoscerli. Di fronte alla violenza sistemica e agli attacchi frontali che le comunità marginalizzate subiscono da parte del potere e della norma cis-etero-patriarcale, la risposta a cui tendiamo è quella di una costante e comprensibile postura di autodifesa, di creazione di una visione utopica e omogenea di comunità in cui siamo tuttx solidali, in accordo e complici, in cui nessunx di noi è portatorx di violenza. Una visione di questo tipo non consente di assumere il conflitto/la violenza che permea le nostre relazioni, le dinamiche disfunzionali e tossiche che riproduciamo soprattutto nelle relazioni intime che si sviluppano lontane dallo sguardo collettivo. Ma soprattutto non consente alla comunità stessa di farsi carico delle proprie responsabilità di fronte al conflitto/la violenza, di nominare cosa andrebbe fatto per evitare che si produca e riproduca e di articolare un percorso di trasformazione e riparazione che, a partire dalla vicenda di singole persone, investa la comunità nel suo intero. Allontanare il conflitto/la violenza dalle nostre comunità negandoli, proponendo soluzioni semplici e immediate, senza indagare i fattori che hanno permesso a quel conflitto/violenza di strutturarsi ed evolvere fino all’episodio emergenziale o eclatante rappresenta, secondo noi, una strategia miope nel breve periodo e deleterea nel medio e lungo periodo.”
Punizione senza trasformazione ci porterà all’autodistruzione: ogni persona che commette una violenza violenza viene eliminata, chi resta prima o poi la agirà (perchè senza consapevolezza e critica per forza di cose prima o poi accade), e allora o chi prima ha “eliminato il colpevole” viene eliminat* a sua volta, oppure chi ha vissulto la violenza scappa e non si riavvicina più alla militanza, scottat* da questo episodio e senza una rete di supporto.
Soprattutto [6]:
“Pensiamo che l’esclusione di una persona trans/queer/lesbica* dalla comunità, in seguito a episodi di violenza o conflitto da lei agiti, non sia la strategia migliore per affrontare queste situazioni. Le persone trans/queer/lesbiche* spesso non trovano spazio nel mondo e l’isolamento dalla comunità può minare la loro salute mentale e ostacolare un processo di messa in discussione e presa in carico delle proprie responsabilità. Sentiamo la necessità di ripensare i modi in cui poter accogliere una persona che nomina una violenza e che si rivolge alla comunità per poter essere accompagnata e supportata.”
Voglio invitare te che stai leggendo a guardarti e chiederti: se un giorno commetto una violenza, cosa voglio che accada di me?
Io mi rispondo che voglio una comunità che mi responsabilizzi e mi critichi, perchè non voglio fare del male all* mi* compagn* di lotta, voglio la stessa cosa per chi mi ha agito violenza e per le mie amicizie che agiscono violenza.
La paura di guardarsi dentro e il desiderio di vendetta
Se quando ci viene detto che X ha commesso una violenza la nostra reazione è di smettere di parlargli, escluderlo dai collettivi, impedirgli di farsi vedere ad eventi e manifestazioni, le sue informazioni private sensibili la propria storia e proprie difficoltà raccontate ovunque, e chiunque provi a mantenere un rapporto marchiat* come “apologista di abuser”, come è possibile allora guardarsi dentro e riconoscere quando noi in prima persona agiamo violenza.
Nessun* è immune dal Sistema, tutte le persone in grado di intendere e di volere nella loro vita hanno commesso violenza.
Cito nuovamente Giusi Palomba nell’articolo per Menelique [5]:
“L’immagine sociale di un abusatore è sempre quella di una persona orribile. Una persona alienata o alienabile, fuori dalle cerchie politiche o di affetti, meglio ancora se straniero. […] viviamo in una società che fomenta la cultura del castigo, che si concentra soltanto sulla responsabilità individuale, mentre abbandona a se stessa la collettività che produce il clima in cui avvengono le aggressioni, gli stupri, le violenze di ogni tipo. Non solo: li giustifica e incoraggia. Ciò che chiamiamo crimini nella società non sono altro che l’espressione della cultura di una comunità”
Scrivo io che ho vissuto e agito violenza che sia verbale e fisica e sessuale: non mi è stato insegnato il consenso e non mi è stata calata dal cielo la formazione quando ho capito di essere trans, non realizzavo come certi insulti ferissero perché lo vedevo come “normale”, lo fanno tutt*.
E ho vissuto la violenza: fischi per strada, ricatto per ottenere sesso, conversazioni estremamente private condivise senza il mio consenso per “vendetta”, oggetti rubati in cambio di confessioni.
Ho preso consapevolezza della violenza che ho agito non grazie alla esclusione, all’isolamento e alle violenza ma grazie ad una rete di persone compagne che hanno voluto prendere consapevolezza di come il Sistema agisce attraverso di noi e quindi come e perchè agiamo violenza, e soprattutto cosa fare adesso.
Sicuramente commetterò ancora violenza, sarebbe troppo bello essere decostruit* al 100%, e le mie amicizie la commetteranno, voglio credere che non sarà punirci vicendevolmente la soluzione ma continuare a restare vicin* e riflettere, essere consapevoli, con la volontà di riparare al male fatto e trasformare non solo noi ma la collettività.
Dal testo di Kai cheng Thom [6]:
“Le comunità queer reali sono piene di sognator* ferit* – come potrebbero non esserlo? E, essendo così ferit*, non siamo preparat* al fatto che possano succedere delle cose brutte anche tra di noi – come parlarne, come affrontarle, come guarirne. Non sappiamo come affrontare le conversazioni difficili, non sappiamo come guardarci attraverso delle lenti che siano allo stesso tempo di amore e di giustizia. O fai parte di Queerlandia, o ne stai fuori. Non c’è una via di mezzo. Forse è per questo che, quando succedono delle cose brutte, raramente ci focalizziamo su noi stess* e sulle nostre responsabilità, ed è per questo che siamo così voglios* di etichettare come mostro chi, nelle nostre comunità, fa del male. In fondo cos’è un mostro? Una creatura che viene dal mondo Di Mezzo – tra la fantasia e la realtà, il bene e il male, la guarigione e il danno. Creiamo dei mostri a partire da quello che abbiamo paura di vedere allo specchio.”
Sicuramente ci è stato raccontato tramite sussurri e screenshot presi senza consenso di “quella persona lì” che ha agito violenza, però ci pensiamo che un giorno saremo noi l’oggetto di quegli screenshot non consensuali e chiacchierate che ti impediscono di mettere piede ad un corteo?
Continuo [6]:
“Come comunità, abbiamo la tendenza a rispondere solo al danno estremo che viene nominato esplicitamente in quanto tale, mentre tendiamo a ignorare le modalità più sottili in cui il danno avviene e si intensifica. Non siamo in grado di comprendere come si sviluppino delle relazioni nocive o come queste progrediscano; non riconosciamo i primi segnali della violenza e non attuiamo strategie che potrebbero aiutarci a contrastarla prima che sopraggiunga la tragedia o il trauma. Non riusciamo a essere attivamente consapevoli della presenza di persone nocive finché queste non feriscono qualcun* così profondamente che sembra non esserci altra opzione che escluderle completamente dalla comunità. E quindi diventiamo evitanti rispetto al danno, ma allo stesso tempo ne siamo ossessionat*. Cerchiamo di prendere più distanze possibili da qualsiasi accenno di violenza o scelta dolorosa. È impensabile concepire noi stess* o coloro che amiamo come persone potenzialmente dannose o che hanno leso altr*, perché farlo vorrebbe dire perdere Queerlandia – ovvero, perdere tutto.”
Aggiungo un tema molto caldo che non affronterò in questo articolo: l’uso di sostanze alteranti e la psichiatria. Fin troppo spesso vedo scusati comportamenti molesti perchè un* compagn* ha bevuto troppo e si è fatt* di tutto, e quindi non è in grado di intendere e di volere. Chi sta attorno se ne lava le mani con “è grande può decidere se ubriacarsi”, però è veramente così? Fino a che punto possiamo lasciare perdere e quando è il caso di intervenire e dire a questa persona “basta alcol perchè poi vai a molestare le persone”? Qual è la linea tra “autodeterminazione” e “responsabilità collettiva di tutela” (e parlo di tutela per tutte le parti, chi molesta e chi viene molestat*).
Non ho gli strumenti per capire quando una persona è in grado di intendere e di volere, e ritengo che allo stato odierno le “malattie mentali” vengano dipinte dalla medicina generale come delle patologie che tolgono la capacità di decidere ed autodeterminarsi. Voglio invitare caldamente a farci delle riflessioni a riguardo perchè non ho neanche trovato degli articoli da citare in merito, dobbiamo essere noi a decostruire la “psichiatrizzazione” senza però ignorare i bisogni oggettivi di alcune persone.
Non esiste la vittima pia e che porge l’altra guancia, tutt* proviamo la volontà di vendetta verso chi ci ha fatto del male, possiamo però decidere se ricercarla oppure rivolgersi alla propria rete di supporto e collettività, che deve a sua volta essere in grado sì di accogliere il desiderio di vendetta senza lasciare che si concretizzi, altrimenti si ripete il circolo vizioso di violenza che viene girata e rigirata senza mai finire [6].
“La punizione ci piace nella Terra della Giustizia Sociale (molte persone, in società e subculture diverse, amano la punizione). Chiaramente ci piace. È piacevole vedere qualcun* che ci ha fatto del male soffrire la conseguenza dolorosa delle proprie azioni, e proviamo indirettamente la stessa sensazione quando vediamo punire qualcun* che ha fatto male a qualcun* altr*. Non penso che sia sbagliato di per sé. Ho molte fantasie di vendetta e a volte le trovo estremamente confortevoli. Il problema sta nella messa in pratica della punizione e della vendetta (e no, non vedo una differenza significativa tra punizione e vendetta sebbene se ne possa discutere): il dolore e la violenza tendono a replicarsi come un virus. La punizione non mette fine alla violenza; al contrario, la nutre. Ci piace considerare le nostre punizioni “umane”; ovvero, ci piace pensarle come delle non-punizioni. Preferiamo raccontarci che le punizioni che infliggiamo siano naturali, delle conseguenze giustificate. Perché la punizione ci fa sentire bene sul momento, ma ci fa anche sentire in colpa. Come compagn*, in particolare, non amiamo pensarci nel ruolo di chi perpetua la violenza perché affermiamo di schifare la violenza. Fa specie, però, che anche il sistema carcerario e della giustizia penale si appellino alla santità morale delle proprie punizioni. […] Nella cultura della giustizia sociale, la responsabilizzazione viene imposta tramite la gogna e l’esclusione pubbliche, che spesso colpiscono la reputazione sociale della persona anche molto dopo che la responsabilizzazione/riparazione sono avvenute. Gli strumenti collettivi per valutare l’efficacia dei processi di responsabilizzazione e delle misure adottate non sono in voga; anzi, alcune persone nelle comunità di giustizia sociale sembrano preferire un bombardamento infinito di call-out online alla risoluzione del conflitto.”
Il mutuo – aiuto è possibile?
Il mutuo – aiuto prevede il mutualismo: io faccio e tu fai, io ho bisogni di aiuto e tu, facendo parte del gruppo dedicato, hai la responsabilità di dare questo aiuto, e viceversa. Tuttavia fin troppo spesso viene sottovalutato il peso emotivo (e talvolta fisico) di cosa significa esserci per una persona su temi per noi triggeranti, che ci portano quindi a venire meno a quella responsabilità.
Il “lavoro di cura” non è una passeggiata in discesa con una leggera brezza e un bel paesaggio, significa anche aver a che fare molto spesso con i propri trigger e la responsabilità di cura prevede saperli gestire per poter dare quel aiuto che ci viene chiesto.
Questo non significa darsi all’individualismo più sfrenato e non ascoltare le richieste di supporto e aiuto, anzi, bisogna riconoscere maggiormente quanto abbiamo bisogno di affrontare la nostra storia di vita anche con le sue parti meno piacevoli.
L* psicolog* hanno l’obbligo di avere a loro volta un* psicolog*, perchè il compito di ascoltare le vite delle persone con i loro traumi ha delle ripercussioni sul sè. I lavori che prevedono la cura di altre persone hanno tra i rischi sul lavoro nel contratto proprio lo “stress da lavoro correlato”. Non possiamo quindi ignorare che anche nelle nostre pratiche costruite quanto più possibile dal basso e collettivamente non ci siano delle conseguenze, il famoso “burnout”.
Fin troppo spesso ho visto amicizie avere bisogno di un gruppo di mutuo-aiuto in seguito ad una violenza sessuale, però quelle persone che si erano prese la responsabilità erano estremamente triggerate dal tema e quindi quando c’era bisogno si tiravano indietro per il (legittimo) bisogno di preservare la propria salute mentale in primis. Però allora cosa posso fare se ho bisogno di aiuto? Che fare? Ci fosse una risposta facile non servirebbe neanche questo capitolo.
Riprendo un pezzo da “Spero sceglieremo l’amore” [6]:
“Ci sovraccarichiamo di una responsabilità che può andare al di là delle nostre capacità del momento e non ci rendiamo conto di quanto siamo coinvoltx e poco lucidx. Per quanto siano buone le intenzioni da cui partiamo, ci ritroviamo a polarizzarci in schieramenti oppositivi, rischiando di peggiorare la situazione per le persone direttamente coinvolte e compromettendo seriamente il benessere della collettività. Arriviamo a definire chiaramente due ruoli, quello di aggressorx da un lato e quello di vittima dall’altro. La nostra esperienza ci insegna che spesso la situazione è molto più complessa di così.”
“Cosa servirebbe per costruire una comunità dove poter essere veramente safe? Non safe nel senso perfetto e rigido di “completamente priv* di rischi” – visto che una cosa del genere non è possibile in questa vita – ma safe abbastanza da permetterci di vivere l’intimità e l’avventura con la consapevolezza di avere davvero una comunità alle spalle? Dove essere abbastanza safe da poter commettere errori, ferire persone nel modo in cui tutt* a volte facciamo per incuria o sbadataggine o semplice stupidità, da chiedere scusa in un modo che sia curativo anziché ancor più dannoso? Dove lo stupro e il trauma inflitto alle donne trans of colour non sia un epilogo scontato? Credo vorrebbe dire abbandonare il sogno di Queerlandia, un sogno che ci ha tenut* in vita, è vero, ma che ci ha anche intrappolat*, come ragni impigliati nelle proprie ragnatele distopiche. Perché Queerlandia è un sogno di perfezione, il che significa che solo le persone perfette – le vittime perfette, l* sopravvissut* perfett* – possono viverci. Forse è per questo che molte delle persone della comunità queer, tra quelle che conosco, che più prendono parola sulla violenza e allontanano chi la agisce sono le stesse che bullizzano l* altr*, perseguono forme di intimità non consensuale e agendo manipolazione psicologica. Che succederebbe se, invece di aspettare che una relazione tossica tra due persone della comunità queer esploda nel circolo vizioso di call-out e allontanamenti che tutt* conosciamo fin troppo bene, iniziassimo a parlarci e a intervenire quando vediamo che una o entrambe le persone hanno bisogno di aiuto? Che succederebbe se non avessimo paura di chiedere: “Scusa magari mi sto sbagliando alla grande e non sono affari miei, ma non è che questa relazione ti sta facendo del male?”. Che succederebbe se organizzassimo i nostri giri e le nostre comunità in gruppi di famiglie scelte, accompagnat* da persone più navigate cosicché, quando una persona vicina o un* amante agisce violenza, possiamo essere pront* a responsabilizzarl* in una maniera non punitiva e amorevole? Che succederebbe se invece di andare a caccia dei mostri che vivono tra noi, ci concedessimo uno sguardo lungo, amorevole e coraggioso allo specchio? Chi vedremmo riflesso?”
Riprendo Giusi Palomba [4]:
“Se la punizione è ciò che, come singoli o come società, si infligge a chi ha commesso qualcosa che è considerato un crimine, possiamo dire che la vendetta è la pulsione individuale, il desiderio personale di fare giustizia, che coviamo nel nostro intimo e viene fuori con azioni più o meno solitarie. E la vendetta ha sempre entusiasmato e intrattenuto moltissimo, perché è una pulsione comune e allo stesso tempo difficile da ammettere, e vederla rappresentata è come metterla in pratica in un modo innocuo. […] Le storie di vendetta, e in particolare di quella contro uomini che hanno commesso violenze, a volte riescono nell’intento di fungere da occhio esterno, riusciamo a vederci dal di fuori, a interpretare le forme che prende il malessere. Nei processi di responsabilizzazione comunitaria, si può decidere di lavorarci su e dare direzioni a questo desiderio, facilitarne l’espressione, invece che reprimerlo. […] la vendetta non delega il controllo, lo conserva, anche se poi ci trasporta in territori cupi e desolati, da cui è difficile tornare indietro. Il desiderio di vendetta non è sinonimo di malvagità. E non è una cosa rara. Deriva spesso da grandi dolori. E soprattutto, bisogna averlo provato per poterlo trattare. Non si può lavorare con qualcuno che sta provando rabbia o desiderio di vendetta senza sapersi immedesimare, senza averli mai provati. […] Nel suo contributo in Beyond Survival Elizabeth Long [7] scrive: «Onorare le contraddizioni delle sopravviventi rende la giustizia trasformativa possibile. Le fantasie di vendetta e la giustizia trasformativa non si escludono mutualmente». Long descrive la sua esperienza di guarigione dopo una violenza e indica che la verbalizzazione del desiderio di vendetta è spesso liberatoria, mentre la messa in pratica della vendetta quasi mai lo è. […] Anche io ho sentito più volte nella mia vita il bisogno di punizione, e forse più ancora di vendetta. Ho sentito il bisogno di punire Bernat, di vendicarmi di Giorgio o degli altri membri del magazine italiano a Barcellona. Non è durata tanto, ma è successo. Non ho mai pensato di infliggere loro chissà quali sofferenze, questo no, ma anche solo di lasciarli cuocere nel loro brodo, di lasciare che Bernat risolvesse da solo i suoi problemi, nei giorni in cui ero stanca dei suoi modi; oppure avrei avuto voglia di esporre platealmente Giorgio e quella che ho considerato spesso una sua doppia faccia in pubblico. Ho provato, di certo come tutti, molta rabbia, e non parlo dell’umore di un giorno, ma di una rabbia intensa: rabbia davanti a un evento traumatico, rabbia verso partner del passato che mi hanno ferita, rabbia per un’amicizia finita male, per un capo che mi ha reso la vita impossibile. Ho desiderato – e a volte è successo – di lasciarmi andare a reazioni acritiche e liberatorie, senza pensarci troppo. Tuttavia mi è anche successo, già molto prima di occuparmi di risoluzione di conflitti e di giustizia trasformativa, di percepire in quella rabbia un’apertura, un canale, una possibilità che passava per il riconoscimento condiviso dell’accaduto: per questo mi bruciava così tanto la bugia di Bernat; per questo insistevo con il gruppo del magazine italiano per parlare di machismo: sentivo che se oltre a individuare le responsabilità mie o altrui avessero riconosciuto di aver compiuto una certa azione, o di aver assunto un certo comportamento, probabilmente sarei riuscita (saremmo riusciti) a elaborare e generare qualcosa di più costruttivo da quella rabbia. Non solo per me, ma per tutte le persone coinvolte.”
Concludo il capitolo con un aneddoto raccontato da Kai cheng Thom [6] però spaventosamente simile al vissuto di tantissime persone:
“Mi ricordo anche di aver assistito a un call-out relativo a una donna trans of colour accusata di manipolazione emotiva ai danni della persona con cui aveva una relazione romantica. Questa donna trans è stata allontanata sommariamente dagli spazi queer della città, dalle reti di cura e dagli eventi sociali. Ha sviluppato una forma di intensa paranoia e alla fine è sparita dai social. Non ho idea di che fine abbia fatto. Alla comunità queer non manca un discorso sulla violenza sessuale. Al contrario, ci siamo dentro fino al collo già da tempo. Eppure, per quanto ne abbiamo parlato, non sembra essere cambiato molto – ci sono ancora vittime, e ci sono ancora persone abusanti. Questo ci pone di fronte a domande interessanti: cosa dobbiamo davvero dirci sugli abusi sessuali nella comunità queer? Quali verità, e le storie di chi, vengono schiacciate dall’urlo primordiale del nostro dolore collettivo?”
Questa è forse la cosa peggiore (per me) di come sta andando il movimento adesso ed il motivo per cui da quanti anni non milito: abbiamo così tanta voglia di vendicarci che se un* compagn* smette di esistere l’unica cosa che ricordiamo è “ma lo sai che X anni fa ha fatto questa cosa”, potrebbe anche essere morta questa persona ma per la comunità la preoccupazione principale è “non fargliela passare liscia”.
Troppe volte ho avuto persone dirmi che avrebbero lasciato Torino perchè ormai chiunque sapeva cosa era successo, il proprio indirizzo di casa era stato reso pubblico, il numero di telefono, il deadname, non potevano neanche andare alla LIDL perchè tutte le altre militanti fanno la spesa lì, non potevano stringere nuove amicizie perchè queste avevano paura.
Io ho vissuto questo trattamento che mi ha portato a lasciare la città per qualche anno: ho cambiato casa due volte, le mie informazioni stampate (quindi pure metterci i soldi per agire vendetta), le mie amicizie hanno dovuto scegliere “da che parte stare” e per vederci dobbiamo nasconderci altrimenti anche loro vengono “cancellati”, l’unico supporto è stato da un gruppo di compagne donne cis etero che mi dovevano scortare perchè avevo ricevuto minacce di pestaggio. Per cosa? Per aver voluto prendermi la responsabilità del mio amico che ha agito violenza, non l’ho “cancellato”, ma per anni (e ancora oggi) lo tengo d’occhio che ciò che ha fatto non si ripeta e sia sempre più consapevole delle proprie azioni.
Ritorno ad un punto già menzionato prima: se abbiamo così paura di ammettere di agire violenza non è per come sono state trattate le persone prima di noi? Pensiamo veramente che questo sia il modo di fermare il patriarcato? Possiamo fidarci l’un* dell’altr* con questo modo di gestire gli episodi di violenza?
Responsabilità collettiva oltre il collettivo
Arrivo all’obiettivo di questo mio articolo, cioè appellarmi a tutte le realtà di tutti i territori e andare oltre i limiti del collettivo od organizzazione.
Quasi sempre sento dire che non ci possiamo intromettere negli “scazzi” di un altro gruppo perchè “hanno le loro pratiche”, comprendo e condivido il sentimento iniziale di voler rispettare come uno spazio decide di esistere e quindi non intromettersi. Però qual è il limite tra “rispetto delle pratiche altrui” e “non voglio prendermi questo impegno?”
Bisogna dircelo: ci sono realtà a Torino (ma non solo) che non ce la fanno a gestire internamente gli episodi di violenza (di qualunque tipo) e formarsi affinchè i danni vengano riparati e non più ripetuti, in generale non esiste un “protocollo” che stabilisce cosa fare. Voglio allora che ogni persona che sta leggendo si chieda e porti a chiedere come facciamo, pensiamo sia possibile costruire un mondo migliore se non ci permettiamo di intervenire anche negli spazi altrui?
Attenzione non sto auspicando che tutte le strategie violente di eliminazione che stanno venendo usate adesso vengano ampliate, non voglio che chi commette una violenza non solo si veda le proprie informazioni personali condivise nel collettivo ma proprio per tutta la città. Voglio sperare che succeda proprio tutto l’opposto: come nella esperienza raccontata da Giusi Palomba voglio che ci responsabilizziamo oltre i confini del proprio gruppo di appartenenza per costruire una rete che sia veramente solida e fitta, non un mucchio di fili gettati.
FONTI
Non tutto deve essere sempre legato alla scienza perchè ha tutti i suoi limiti, però non fa male quando possibile avere riferimenti reali, da qui elencati da articoli online, ricerche, libri, racconti.
[1]https://www.antibullyingpro.com/support-and-advice-articles/neurodiversity-and-bullying-behaviour
[3]”Aboliamo le Prigioni” di Angela Davis (versione tradotta in italiano da Giuliana Lupi)
[4]”La trama alternativa” di Giusi Palomba
[5]https://www.menelique.com/femminismo-anticarcerario-amicizia-stupro-comunita/
[6]https://anarcoqueer.noblogs.org/post/2023/05/05/spero-sceglieremo-lamore
[7]Elizabeth Long, «Vent Diagrams As Healing Practice: TJ Tips from the Overlap», in Ejeris Dixon e Leah Lakshmi Piepzna-Samarasinha, Beyond Survival. Strategies and Stories from the Transformative Justice Movement, AK Press, Chico-Edimburgo 2020
Ho citato delle persone, lascio i loro siti web con altri articoli di loro produzione e/o libri direttamente acquistabili.
Leah Lakshmi Piepzna-Samarasinha: https://brownstargirl.org/
Kai Cheng Thom: https://kaichengthom.com/
Giusi Palomba: https://www.instagram.com/giusipal/